Il ruolo importante del terzo settore e nello specifico del volontariato (anche individuale e non “organizzato”) nell’affrontare l’epidemia causata dal coronavirus è stato più volte evidenziato nel corso delle ultime settimane. Sono moltissime le persone che hanno potuto continuare a beneficiare di assistenza e servizi utili grazie all’encomiabile impegno di migliaia di volontari ed operatori che si sono ritrovati a svolgere le proprie attività non di rado anche in assenza dei corretti Dispositivi di Protezione Individuale (DPI).

Se, infatti, è assolutamente necessario ricordare il sacrificio di molti medici, non dobbiamo dimenticare anche quello di diversi operatori del terzo settore colpiti dal virus nel mentre portavano il proprio contributo alla tenuta sociale della comunità.

Ancora una volta nei momenti di assoluta difficoltà il mondo del volontariato si è mostrato uno dei pilastri pronti a sorreggere la comunità ed offrire le prime risposte alla crisi, l’Italia è storicamente la culla del volontariato e non perde mai occasione per dimostrare quanto solide siano le radici in cui affondano le ragioni dell’impegno di milioni di persone.

Mai come in questo momento, con la crisi economica che seguirà il lockdown da coronavirus, ci si dovrebbe preoccupare di tutelare maggiormente questo patrimonio e questa forza cercando di non disperdere l’energia delle tante piccole realtà territoriali che hanno contribuito negli anni a realizzare un welfare di prossimità che tanti benefici ha portato alla comunità. Ogni volontario è portatore di valori e storie che raccontano di rinunce in nome del prendersi cura degli altri.  Spesso dimentichiamo che i volontari sono rappresentanti di senso laddove a volte sembrerebbe mancare. Ancora più spesso dimentichiamo che il tempo è prezioso e il dono incondizionato del proprio a una causa e alla cura della carne viva, della storia di un’altra persona è qualcosa che offre letteralmente dei corti circuiti in una società così protesa alla ricerca dell’interesse individuale e all’esclusivo profitto economico.

Perché queste considerazioni, pronunciate in altra forma e non solo oggi da molti rappresentanti della classe dirigente, non restino parole vuote sarebbe davvero opportuno iniziare a non dimenticare i “piccoli” rappresentanti di “grandi” storie. Parliamo delle piccole realtà territoriali, fuori dai grandi circuiti, dalle grandi reti perché spesso il tempo e le sole risorse che hanno sono quelle che rendono disponibili a chi vive situazioni di disagio.

Oggi ci raccontano di MES, di sussidi, di cinque per mille, di grandi compagini associative che sono un vanto per il nostro Paese, ma non possiamo e dobbiamo dimenticare chi opera in silenzio e che con la crisi economica alle porte rischia di veder mancare anche quel poco che poteva mettere a disposizione degli altri. Si rischia di perdere esperienze importanti ed irripetibili. Non tutti possono beneficiare di milioni o centinaia di migliaia di euro di cinque per mille o di rapporti con grandi ed importanti aziende e fondazioni.

Sarebbe bello iniziare a pensare ad una specie di Piano Marshall per il sociale e grazie al quale le grandi fondazioni bancarie, le grandi strutture del terzo settore, le Istituzioni ad ogni livello supportino – con poche, chiare, severe regole e linee guida – le piccole realtà del no-profit. Uscendo così, finalmente, dalle logiche competitive e di mercato che da diversi anni avvolgono il mondo del volontariato e del terzo settore in generale.

Anche questo sarebbe riscoprirsi comunità e davvero, almeno per il no-profit, non sarebbe tutto come prima.